Contro il logorio dei Cottarelli e dei Marattin, contro l’imbecillità: M. Cattaneo!

Debito pubblico e movimenti di capitali (Marco Cattaneo)

Ho spiegato in più di un’occasione come la natura del cosiddetto “debito pubblico” sia spesso e volentieri fraintesa. Se uno Stato emette la propria moneta e immette potere d’acquisto nell’economia mediante un eccesso di spesa rispetto alle tasse prelevate, questo eccesso si trasforma, per definizione, in risparmio del settore privato.
E se l’economia nazionale ha saldi commerciali esteri in equilibrio, i privati che accumulano questo risparmio sono residenti del paese, non stranieri.
Chi accumula risparmio ha interesse a disporre di un servizio di gestione del risparmio stesso, a rischio sostanzialmente nullo (anche se, di conseguenza, con rendimenti tendenzialmente bassi).
Il cosiddetto “debito pubblico” è un eccellente strumento per svolgere questa funzione. Il risparmiatore sa che potrà impiegare il proprio risparmio in titoli di Stato, che a tutti gli effetti pratici sono depositi presso il ministero dell’Economia.
E dato che non ha esigenze speculative ma solo di tutela e sicurezza del suo risparmio, il rendimento di questi “titoli” / depositi potrà essere sostanzialmente pari a zero (al netto dell’inflazione) per scadenze molto brevi, e solo leggermente più alto per scadenze a 3, 5, 10 anni.
Per uno Stato che si trova in situazione di normalità (NON nell’anomalia dell’Eurozona, che consiste nell’aver rinunciato ad emettere moneta) il cosiddetto “debito pubblico” (espresso in moneta nazionale) è quindi un servizio di tesoreria offerto ai propri cittadini; non certo un “onere” o un “macigno” o uno spauracchio che debba essere agitato per giustificare politiche economiche restrittive in periodi di debolezza congiunturale.
Di fronte a questa rappresentazione, sento spesso obiettare che in ogni caso il vincolo esterno esiste anche per Stati che emettono debito pubblico espresso nella propria moneta. In condizioni di libera circolazione dei capitali, se altri paesi offrono (per un qualsiasi motivo) rendimenti reali notevolmente più alti, può verificarsi un notevole deflusso di risparmio verso di essi.
Tutto questo è possibile. Va però anche ricordato che il risparmiatore (per esempio) italiano è interessato a un rendimento nella sua moneta. Se i titoli di Stato in lire (ovviamente, nel caso in cui ci fosse di nuovo la lira…) rendessero l’1% al netto dell’inflazione e quelli USA il 3%, l’incentivo a spostare risparmio sarebbe comunque fortemente calmierato dal fatto che il risparmiatore tipico non è attrezzato, e neanche interessato, ad assumersi un rischio di oscillazione del cambio.
Con due punti di differenza nel rendimento reale, fenomeni di deflusso sicuramente avverrebbero. Ma questo produrrebbe un ribasso nel cambio lira – dollaro e avrebbe un effetto espansivo sulla domanda netta di beni e servizi italiani. Il che è di per sé un fattore di riequilibrio, perché genera flussi commerciali attivi (per l’Italia) a compensazione dei flussi finanziari passivi.
Anche in assenza di limitazioni ai movimenti di capitali, in altri termini, il fatto che uno Stato emetta moneta propria e non si indebiti in moneta estera è una barriera molto efficace agli scompensi prodotti dai flussi finanziari internazionali.
Proprio la sua natura di servizio di tesoreria messo a disposizione dei propri cittadini e dei propri residenti rende il cosiddetto debito pubblico (espresso in moneta nazionale) un eccellente strumento di tutela del risparmio destinato a impieghi futuri per spese (e anche per pagamenti di tasse) da effettuarsi all’interno del paese.
L’incentivo a spostare risparmio alla ricerca di rendimenti reali più alti è fortemente limitato dal rischio valutario. E’ normale, in questa situazione, che il cosiddetto debito pubblico sia alimentato, in misura nettamente preponderante, da risparmio interno: risparmio tendenzialmente stabile e (giustamente) ben poco “avventuroso”.
In questo scenario, le variabili da tenere sotto controllo sono principalmente l’inflazione, i saldi commerciali esteri e l’indebitamento in valuta estera. I problemi nascono:
se il “deficit” pubblico (cioè l’eccesso di spesa dello Stato rispetto alle tasse prelevate) spinge la domanda al di sopra delle capacità produttiva dell’economia, generando quindi un eccesso di inflazione; oppure
se i saldi commerciali esteri del paese sono tendenzialmente negativi (nel qual caso il risparmio privato prodotto dai “deficit” pubblici si forma a beneficio di soggetti esteri, non di soggetti nazionali) e
se per finanziare questi saldi commerciali esteri negativi il paese si indebita in moneta straniera (nel senso di moneta che non ha facoltà di emettere).
La flessibilità dei cambi è uno strumento di grande utilità per evitare o contenere questi ultimi due problemi, sia perché tende a far sì che i saldi commerciali esteri svolgano una funzione di riequilibrio, sia perché disincentiva (anche quando la legge non li vieta o comunque non li limita) i flussi di capitali esteri speculativi.

Il debito pubblico non dovrebbe neanche esistere

Uno Stato che emette la propria moneta non ha bisogno di indebitarsi. Se desidera immettere potere d’acquisto nell’economia, spendendo più di quanto preleva in tasse, non deve fare nient’altro che emettere moneta per la differenza.

Questo non significa che l’emissione monetaria possa essere espansa all’infinito. Se l’emissione monetaria alimenta domanda per beni e servizi reali in misura eccedente le capacità produttive dell’economia, non stimola produzione e occupazione, ma solo crescita dei prezzi – quindi inflazione.

Il punto da aver chiaro, tuttavia, è che nel momento in cui si parla di “debito pubblico” si sta facendo riferimento a una situazione in cui lo Stato spende soldi (al netto delle tasse incassate) la cui emissione è demandata a un soggetto parzialmente o totalmente indipendente dallo Stato stesso. Si tratta, ovviamente, della Banca Centrale.

Se le Banca Centrale dipendesse integralmente dallo Stato, o addirittura se non esistesse affatto – se l’emissione monetaria, in altri termini, fosse affidata a un ufficio statale – il concetto stesso di “debito pubblico” sarebbe privo di significato.

Lo Stato non dipenderebbe dalla volontà di soggetti terzi per introdurre potere d’acquisto nella propria economia, mediante spesa netta effettuata nella moneta legale dello Stato stesso. Sarebbe libero di determinare il livello della spesa netta in funzione dei suoi obiettivi di promozione dell’occupazione e di stabilità dei prezzi.

Poiché il potere d’acquisto immesso in circolazione si traduce in risparmio del settore privato, lo Stato potrebbe offrire un servizio di gestione di questo risparmio permettendo a chi lo desidera di lasciarlo depositato presso un’apposita agenzia statale, e riconoscendo un tasso di remunerazione (un interesse) dipendente dal vincolo di durata del deposito.

Ma non sarebbe indispensabile farlo, e se lo si facesse non avrebbe senso affermare che lo Stato si è “indebitato”, e che deve “gestire le finanze pubbliche” tenendo conto delle esigenze di “rifinanziamento del debito”.

L’indebitamento dello Stato esiste solo se e in quanto l’emissione di moneta è demandata a un soggetto diverso dallo Stato medesimo, implicando che quest’ultimo debba prendere a prestito da qualcuno l’eccesso di spesa che ritiene opportuno immettere nell’economia.

Di Franco Remondina

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