Dal blog “seguendo tracce”

GLI “INVISIBILI” DI TRUMP (prima parte)

… e la loro lotta contro il tempo…

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Questa è una storia che non molti conoscono. Una storia che porta fino ai giorni nostri.

Come premessa necessaria occorre sfatare un mito: quello del Presidente statunitense visto come “onnipotente”. Non lo è, nel bene e nel male. Il più grande datore di lavoro al mondo è il Pentagono e vanta ben tre milioni di dipendenti. Senza contare tutte le ramificazioni esterne, le pressioni delle lobbies e le influenze straniere. Il Presidente degli Stati Uniti, chiunque sia, non può, umanamente, avere il controllo su tutta la galassia del Pentagono e delle Agenzie di Intelligence. Ma può, certamente, provare ad influenzare la composizione dei vertici e le decisioni che vengono prese in certi consessi. Questo può avvenire solo nel caso in cui un Presidente riesca a mettere qualche “favorito” (realmente fedele) in posizione chiave.

Così è stato per il Presidente Trump, in una lotta al cardiopalma contro il tempo.

I nomi in questione non sono molto conosciuti: uno di loro è il giovane John McEntee. Odiato da tutti i nemici di Trump è chiaro, vista la giovane età, che tutte le sue mosse erano semplicemente una diretta emanazione della volontà del Presidente (e di una ristrettissima cerchia di suoi fedelissimi). McEntee una pedina? Assolutamente sì. Una fedele – pulita, non cooptabile – pedina.

Chi è McEntee? John David McEntee (nato il 9 maggio 1990) è un consigliere politico americano ed ex atleta di livello universitario che ha servito come direttore dell’Ufficio del personale presidenziale della Casa Bianca nell’amministrazione Trump. A McEntee è stato chiesto di assumere il ruolo di body-guard e assistente personale del Presidente poco dopo l’elezione di Trump. Ma non è stato in grado di ottenere un nulla osta di sicurezza ed è stato licenziato nel marzo 2018 per via di accuse di crimini finanziari (qualcuno non lo voleva alla Casa Bianca) ma ha immediatamente assunto una posizione di consulente senior per la campagna di rielezione di Trump nel 2020. McEntee è tornato a lavorare alla Casa Bianca, diventando direttore dell’Ufficio del personale presidenziale nel febbraio del 2020. La polemica mediatica si è scatenata quando Trump ha assegnato a McEntee il compito di identificare (per la rimozione) tutti i funzionari a suo avviso non sufficientemente leali. Ovviamente, la mano e la mente dietro McEntee erano quelle di Trump. Per questo la stampa mainstream (che è sì densa di boiate ma non è “governata” da cretini) ha cercato in ogni modo di distruggerlo.

Trump, subito dopo l’esito delle elezioni del 2020, ha inviato un bizzarro promemoria esortando il Pentagono a rimuovere immediatamente le truppe statunitensi dislocate all’estero. Una cosa abbastanza surreale. Trump aveva affermato in più di un’occasione che Biden non avrebbe potuto evitare il ritiro delle truppe (in particolare dall’Afghanistan) perché lui aveva “fatto partire un treno che non poteva essere fermato”.

McEntee fu protagonista di uno dei momenti più concitati post-elezioni 2020. Il 9 novembre aveva infatti ricevuto l’ordine (da parte di Trump, ovviamente) di consegnare una nota scritta a mano al Colonnello (in pensione) Douglas Macgregor. La nota recitava: “Questo è ciò che il Presidente vuole che tu faccia: ritirare le truppe statunitensi da Afghanistan, Iraq e Siria.” Aveva poi incaricato il colonnello di “completare il ritiro dalla Germania” e di “portarci fuori dall’Africa”. Il colonnello Macgregor, a cui era appena stato offerto il posto di consigliere anziano del segretario alla Difesa ad interim Christopher Miller, con solo dieci settimane rimaste dal mandato di Trump in carica, disse a McEntee che non pensava che una mossa così drastica sarebbe stata possibile in così breve tempo.

“Allora fai il più possibile”, avrebbe detto McEntee (acc. to Axios). Macgregor, sbalordito, dubitava fortemente dell’ordine ricevuto. Se questo è vero, disse Macgregor a McEntee, allora voglio vedere un ordine del Presidente (al di là del memo). Un promemoria di una pagina venne stato consegnato tramite corriere all’ufficio di Christopher Miller due giorni dopo, nel pomeriggio dell’11 novembre. Il promemoria dettava le istruzioni del Presidente Trump di ritirare tutte le forze statunitensi dalla Somalia entro il 31 dicembre 2020 e tutte le truppe dall’Afghanistan entro il 15 gennaio 2021. Era solo il terzo giorno di Miller come Segretario alla Difesa dopo il licenziamento di Mark Esper.

Alcuni (non tutti) tra i più alti gradi militari in carica erano inorriditi dagli ordini ricevuti. Né il consigliere della Casa Bianca Pat Cipollone né il consigliere per la sicurezza nazionale Robert O’Brien sembravano riuscire a capire da dove provenissero le disposizioni. Il memorandum aveva la firma di Trump, ma nemmeno lo staff di segreteria, il cui compito era controllare tutta la documentazione che arrivava sulla scrivania del Presidente, sapeva da dove provenisse. In capo ai più alti organi di sicurezza nazionale era chiara l’idea che lo stesso Trump stesse cercando di condurre la politica militare in modo diretto, bypassando tutti i gradi intermedi e, ovviamente, la burocrazia. Si dice che  nell’ufficio di Miller, una volta recapitato e letto il breve memorandum, si sia sentito esclamare un: “Che cazzo è questo?” . Ma Miller è comunque un ex berretto verde e aveva diretto il Centro nazionale antiterrorismo quindi era abituato a eseguire gli ordini velocemente senza fermare il flusso del processo. Trump lo aveva scelto per dirigere il Pentagono dopo il licenziamento senza troppe cerimonie di Mark Esper. Era il terzo giorno di lavoro di Miller. La notizia del promemoria si diffuse rapidamente in tutto il Pentagono. Alcuni militari, compreso il presidente del Joint Chiefs of Staff, il generale Mark Milley, erano sgomenti. Sì, lo stesso Milley che pochi giorni fa (15 luglio 2021) ha rivelato alla stampa che Trump “stava tentando un colpo di Stato”. Lapidaria e magistrale la risposta di Trump: “Se dovessi fare un colpo di stato, una delle ultime persone con cui vorrei farlo è il generale Mark Milley”. Praticamente una bastonata nei denti!

Tornando a novembre 2020, è chiaro che alcuni alti gradi militari si sentirono “scoperti”: nessun preavviso, nessun flusso informativo e nessuna riunione operativa. Nessun modo di proteggere gli “affari loschi” instaurati all’estero e coperti dal paravento delle “missioni operative”. Senza contare il terrore di perdere lauti guadagni e vedere carriere rallentate quando non interrotte.

I massimi leader della sicurezza nazionale del governo degli Stati Uniti si resero presto conto di avere a che fare con un’operazione segreta del Comandante in Capo in persona. Molti si sarebbero radunati per respingere gli ordini, a volte apertamente e in coordinamento, altre volte in modo così discreto che i massimi funzionari dell’amministrazione Trump hanno dovuto rivolgersi alle intercettazioni classificate dell’NSA per avere indizi sui loro movimenti.

Ma la fissazione di Trump contro la politica delle “endless wars” (lo stato di guerra permanente dell’impero statunitense) non nasce ovviamente in quei concitati giorni. Troviamo già tracce nel 2011, quando il futuro Presidente si occupava “solo” di gestire la sua vasta galassia milionaria di attività immobiliari. All’epoca già inveiva pubblicamente contro la presenza militare degli Stati Uniti in Iraq e in Afghanistan. Una volta in carica, tuttavia, le ambizioni di Trump di ritirarsi dall’Afghanistan e da altri Paesi sono state in netta misura “tarpate”, rallentate e deviate da alcuni (infedeli) leader militari (soprattutto nel Comando Centrale, un “nido di vespe” formato da personale che sullo stato di guerra infinita “ci mangia abbondantemente”).

Torniamo per un attimo ai primi mesi di presidenza di Trump, quando nacque la diatriba tra Steve Bannon (che aveva iniziato a partecipare alle riunioni del Consiglio di sicurezza nazionale) e alcune posizioni di vertice (come il segretario alla Difesa Jim Mattis e il consigliere per la sicurezza nazionale H.R. McMaster che lavoravano su un’opzione per inviare 4.000 soldati aggiuntivi in Afghanistan). Bannon lanciò un’idea folle: sostituire le truppe americane in Afghanistan con mercenari privati. Ma Bannon – che era molto legato a Erik Prince, l’imprenditore della sicurezza privata dietro l’agenzia Blackwater – era un anticonformista e non rispondeva a nessuno, incluso Trump per la maggior parte del tempo .Il personale dell’NSC era preoccupato del fatto che Prince e Bannon potessero avere secondi fini redditizi. La sensazione era che, tra le due “fazioni” in lotta, nessuna delle due fosse veramente disposta ad ascoltare seriamente Trump. Per questo il Presidente li licenziò tutti, ad uno ad uno, sia da una parte che dall’altra. Purtroppo, nell’agosto 2017, a Camp David, logorato dalle lunghe discussioni con alcuni alti gradi militari, Trump firmò l’opzione preferita dai generali guerrafondai diventando così il terzo Presidente consecutivo a inviare truppe in Afghanistan.

Aveva cambiato posizione.
Ma non aveva cambiato idea.
Non avrebbe mai cambiato idea.

Tornando al 2020,  nel pomeriggio del 9 novembre, Douglas Macgregor, un “trumpianissimo” veterano pluridecorato, entrava nell’Ufficio del personale presidenziale nell’Eisenhower Executive Office Building. Macgregor, 68 anni, le cui opinioni in materia di politica estera e questioni sociali lo avevano visto scomunicato dall’establishment militare, era lì per incontrare il giovane McEntee.
Il dialogo fu più o meno di questo tenore (secondo testimonianza dello stesso Macgregor): “Colonnello, il Presidente vuole sapere se accetterà l’incarico di consigliere anziano del segretario ad interim della Difesa”, disse McEntee. “Perché?” chiese Macgregor. “Il presidente pensa che lei possa aiutarci a districarci nel ritiro dall’Afghanistan, dall’Iraq, dalla Siria e potenzialmente da altri luoghi”. Macgregor, un fluente oratore tedesco, era stato nell’estate 2020 il candidato di Trump come ambasciatore a Berlino. Il Presidente aveva poi rinunciato all’idea per via degli attacchi mediatici nei confronti del Colonnello.

Macgregor (veterano della guerra del Golfo, a sua volta stimato dai veterani) aveva incontrato Trump per la prima volta nel corso di una riunione allo Studio Ovale nell’aprile 2020. I due uomini avevano legato all’istante. Quando l’incontro si era concluso, Trump aveva detto a Macgregor: “Voglio che lavori per me. Troveremo un modo”. Trump aveva conosciuto Macgregor attraverso le sue frequenti apparizioni su Fox News, dove il Colonnello era solito inveire contro le “endless wars”, promuovere un dialogo con la Russia in tema della ricerca di un punto di equilibrio e di pace, scagliarsi contro alcuni leader del Congresso (definiti “idioti”) e ridicolizzare le politiche del Pentagono sull’isteria gender-equality e le truppe transgender. Nominare Macgregor in una posizione di alto livello del Pentagono sarebbe stato come lanciare una granata nell’edificio, soprattutto perché Milley e Macgregor si disprezzavano a vicenda. Ma non ci volle molto perché invece, a novembre 2020, Macgregor accettasse l’offerta di McEntee di salire a bordo della squadra di Trump. Fu allora che McEntee consegnò a Macgregor il foglio con le elettrizzanti istruzioni di Trump.

La nomina di McEntee a direttore dell’Ufficio del personale presidenziale nel febbraio 2020, quasi due anni dopo essere stato licenziato, ha segnato un punto di svolta nelle relazioni di Trump con il Pentagono. Una delle persone potenzialmente lealiste identificate da McEntee era Will Ruger, esperto di geopolitica estera, veterano e sostenitore del ritiro totale dall’Iraq e dall’Afghanistan. Per mesi, Ruger ha fornito silenziosamente alla Casa Bianca sondaggi e altri materiali per sostenere la tesi del ritiro totale dall’Afghanistan. Nel maggio 2020, dopo che Ruger ha scritto un editoriale sul National Interest intitolato “Il presidente Trump ha ragione sull’Afghanistan”, McEntee ha lavorato per farlo nominare ambasciatore a Kabul ma non è stato supportato dal Segretario di Stato Mike Pompeo, che ha tenuto in scarsa considerazione Ruger, e il suo Dipartimento di Stato (Deep State Dep., citazione di Trump) ha rallentato la sua nomina per mesi.

Le epurazioni del personale si sono unite agli intensi sforzi di McEntee per circondare Trump di consiglieri che avrebbero finalmente portato a termine il ritiro dall’Afghanistan e dalla Somalia (un ritiro da Siria, Iraq e Germania sarebbe stato invece, secondo Macgregor, impossibile entro il 20 gennaio 2021). Al Pentagono, Esper aveva iniziato a perdere il favore di Trump quasi immediatamente, poco dopo la nomina. Ancor prima di essere confermato, aveva infatti offerto il suo pieno sostegno all’alleanza della NATO (considerata da Trump un inutile carrozzone). Aveva inoltre spinto per rilasciare i fondi ucraini che alla fine erano diventati il fulcro dell’impeachment di Trump. Esper, come Mattis, era furioso perché aveva scoperto di non poter operare liberamente (poiché posto costantemente sotto il radar di controllo di Trump), al contrario di altri Segretari del Governo, come la Segretaria ai Trasporti Elaine Chao, che svolgeva invece il proprio lavoro alla Casa Bianca liberamente.

Poco dopo la diramazione degli ordini di ritiro, Christopher Miller (il sostituto di Esper che era stato appena licenziato) convocò Macgregor nel suo ufficio e gli disse che aveva ricevuto telefonate furiose dai funzionari che avevano saputo dell’ordine, incluso un arrabbiatissimo leader della maggioranza al Senato, Mitch McConnell.

O’Brien, Miller e Milley erano tutti schierati contro il piano di Trump. Nel vano tentativo di farlo resistere, dipinsero al Presidente un’immagine vivida di Kabul che cade in mano ai Talebani . In precedenti conversazioni con Trump, avevano sollevato persino lo spettro di Saigon nel 1975, con le immagini degli elicotteri americani che evacuavano le persone dai tetti mentre i nordvietnamiti prendevano il controllo della Capitale.

Effettivamente in una intervista, Trump aveva sottolineato il timore di lasciare dietro di sé miliardi di dollari di attrezzature durante un ritiro affrettato e logisticamente complesso.

Nel frattempo Biden ha giurato come Presidente e arriviamo ai giorni nostri.

Come ho spiegato in un mio precedente articolo (capitolo: Medio Oriente), Biden ha fatto esattamente quel che Trump e Macgregor temevano ovvero un ritiro affrettato “lasciando intenzionalmente sul campo” attrezzature militari e tecnologia in favore dei Talebani. L’amministrzione Blinken-Biden aveva così predisposto una trappola ai danni di Russia e Cina (già pronte, soprattutto la Russia, ad affacciarsi alla situazione sgombrata dalla presenza statunitense). “Peccato” che la trappola sia miseramente fallita. Nonostante i titoloni dei Media “I Talebani riprendono il potere e arriva il caos!!”, la situazione è in realtà molto diversa. I Talebani sono stati ricevuti a Mosca dall’ambasciatore Kabulov poco tempo fa per discutere di un piano di Pace. Ma c’è di più: nei giorni scorsi Lavrov (Ministro degli Esteri russo) ha definito i Talebani come “persone disposte a trattare una stabilizzazione dell’area”.
Una sconfitta su tutta la linea per il Deep State guerrafondaio transnazionale e sovranazionale.
Stanno perdendo in Afghanistan.
E forse – nonostante la situazione fragile e delicatissima – perderanno in Germania.

E per quanto riguarda l’altra fissazione di Trump, la Somalia? E’ di pochi giorni fa la notizia di un bombardamento statunitense ufficialmente operato contro Al-Shabaab (costola ISIS) mentre in pratica si tratta di un tentativo di annullare il ritiro delle ultime truppe USA (ritiro, come abbiamo visto, fortemente voluto da Trump). E’ errato il fatto, come scrivono alcuni, che i militari in Somalia “hanno agito da soli perché risponderebbero a Trump e non a Biden”. Questa è pura narrativa neocon trasmessa in malafede oppure per semplice ignoranza geopolitica militare. Probabilmente lo Stato Profondo sta cercando di ri-aprirsi una porta in Somalia (terra dalla quale Trump aveva ritirato buona parte delle forze). I militari non hanno agito dietro ordine di Biden ma autonomamente come da protocollo attivato in questo tipo di missioni (collective self-defense) in seno all’Africa Command. Cosa vuol dire? Vuol dire che i guerrafondai stanno offrendo a Biden (senza che lui debba sporcarsi le mani), su un piatto d’argento, l’occasione per rimanere in Somalia. Cosa che Trump non avrebbe voluto per nessun motivo. La martoriata Somalia, mèta di traffici di tutti i tipi: dalla tratta di esseri umani, anche bambini, al traffico di armi e rifiuti tossici.

Spero vivamente che la cosa non vada in porto.
Sono quasi certa che qualcuno ci stia lavorando…

FINE PRIMA PARTE.


Fonti:
https://gaz.wiki/wiki/it/Bibliography_of_Donald_Trump
https://www.axios.com/trump-pentagon-douglas-macgregor-43082c11-5480-4efb-9d83-3761f35798ff.html+
https://www.independent.co.uk/news/world/americas/us-politics/trump-election-memo-military-troops-b1848997.html
https://www.cato.org/commentary/deep-state-thwarted-trumps-afghanistan-withdrawal#

Di Franco Remondina

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