Se a Palermo il problema è il “traffico”, a livello sociale invece è “la gente in eccesso”.
Le guerre servivano a eliminare gente, non avevano altro scopo.
Basta vedere la I° guerra mondiale, l’Italia aveva un esercito di quasi 500 000 uomili e l’Austria si opponeva all’Italia con circa 70 000 uomini….
Risultato? Tre anni di logoramento e circa 200 000 uomini morti.
Leggete questa analisi economica di Augusto Graziani, economista italiano…
La lezione di un economista
La lezione di un economista
Augusto Graziani
Dalla ricostruzione dell’immediato dopoguerra al processo di integrazione monetaria europea.
Pubblichiamo l’introduzione al volume “Lo sviluppo dell’economia italiana”
dell’economista Augusto Graziani, scomparso a Napoli, il 5 gennaio scorso, all’età di ottant’anni
Augusto Graziani è venuto a mancare il 5 gennaio, a 80 anni. Aveva insegnato alle Università di
Catania, alla “Federico II” di Napoli e alla Sapienza di Roma, ed era stato senatore del
Pds nel 1992-94. È stato un punto di riferimento importante per la cultura economica di sinistra e
un protagonista del dibattito politico a partire dagli anni ’70. Molto del suo lavoro di ricerca è stato
dedicato a sviluppare la teoria del circuito monetario (The monetary theory of production,
Cambridge University Press, 2003). Il suo libro sull’economia italiana (nell’ultima versione
apparso da Bollati Boringhieri nel 2000 col titolo “Lo sviluppo dell’economia italiana”) è
stato essenziale per capire i problemi economici del paese. Ricordiamo Augusto Graziani
ripubblicando qui alcune parti della Premessa di quel volume.
Rievocare le vicende dell’economia italiana nel corso della seconda metà del Novecento significa
ripercorrere modificazioni profonde che hanno investito la struttura economica del paese e la sua collocazione internazionale. (1)
Nel 1945, all’indomani della seconda guerra mondiale, si può dire che l’economia italiana avesse
appena avviato il processo di industrializzazione. Non mancavano anche allora produzioni
industriali avanzate e diversificate; ma queste erano prevalentemente concentrate nel cosiddetto
«triangolo industriale», mentre le altre regioni, salvo rade eccezioni locali, restavano
essenzialmente agricole. Alla fine del secolo, l’Italia viene invece riconosciuta come la quarta o la
quinta potenza industriale del mondo.
Questa lunga strada di industrializzazione e di progresso è stata percorsa dall’economia italiana
nelle condizioni tipiche di un paese da un lato
piccolo e largamente aperto agli scambi con l’estero, dall’altro in possesso di un’industria che,
mancando di adeguata autonomia tecnologica, non riusciva ad acquisire, nonostante il continuo
aggiornamento, posizioni di autentica avanguardia. Come ogni economia di piccole dimensioni,
anche l’economia italiana doveva attingere largamente all’estero le risorse produttive necessarie
al proprio sviluppo: il che significa che
un flusso crescente di esportazioni era necessario per fare fronte al fabbisogno dì importazioni.
Non disponendo di un’industria di avanguardia, le esportazioni italiane dovevano farsi strada sui
mercati mondiali facendo affidamento più sul prezzo che sulla novità del prodotto. L’industria
italiana si è trovata in tal modo costretta a perseguire aumenti costanti della produttività del
lavoro nelle industrie esportatrici,
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evitando al tempo stesso aumenti eccessivi nel livello dei salari.
L’azione congiunta di tali esigenze ha fatto sì che lo sviluppo industriale italiano si sia verificato
sempre senza grande assorbimento di manodopera, il che ha perpetuato il problema antico
dell’economia italiana, quello della
disoccupazione strutturale. «La disoccupazione di massa – scrive Vittorio Foa – è il vero grande
protagonista della storia italiana del secondo dopoguerra» (V. Foa 1975, 26). Le grandi decisioni
di politica economica, se analizzate nei loro motivi profondi, possono essere tutte ricondotte al
nodo centrale, consistente nell’esigenza di trovare collocazione alla massa di disoccupati, o
quanto meno di evitare che la pressione della disoccupazione si tramutasse in fattore di
instabilità sociale.
Per la medesima ragione, fenomeno di rilevanza determinante nel secondo dopoguerra è stato
quello delle
emigrazioni. Negli anni che precedettero la prima guerra mondiale, le emigrazioni, specie quelle
transoceaniche, avevano raggiungo livelli elevatissimi. Come vedremo, la ripresa delle correnti
migratorie negli anni cinquanta e sessanta comportò modificazioni profonde nell’assetto del
mercato del lavoro con ripercussioni sullo stesso processo di accumulazione, mentre l’arresto
delle emigrazioni negli anni settanta produsse modificazioni altrettanto pronunciate nelle modalità
dell’industrializzazione e nel contenuto della spesa pubblica.
Le vicende del cinquantennio che va dal termine del secondo conflitto mondiale ai giorni nostri
possono essere suddivise nelle seguenti fasi principali:
a)
L
a ricostruzione (1945-55) Nel periodo iniziale, il cosiddetto
periodo della ricostruzione, il paese si trovò a fronteggiare un problema duplice, e a prima vista
apertamente contraddittorio: ristrutturare e sviluppare l’apparato industriale, per renderlo pronto
all’ingresso nei mercati dell’Europa occidentale, e al tempo stesso risolvere il problema della
disoccupazione, trovando ad esso una soluzione interna, dal momento che le possibilità di
sbocchi migratori sembravano allora totalmente estinte. Le due esigenze vennero conciliate con
due ordini di interventi, che si susseguirono a ruota: dapprima la ristrutturazione industriale nelle
regioni del Nord e, immediatamente dopo, l’avvio dei programmi di riforma agraria e di opere
pubbliche straordinarie nel Mezzogiorno, dove il problema della disoccupazione era più acuto.
b) Il periodo del
miracolo economico
(1955-63) Questo periodo, e ancor più segnatamente il quinquennio 1958-63, viene descritto
come un susseguirsi di anni miracolosi, nel corso dei quali l’economia italiana ottenne tre obiettivi
usualmente considerati, se non addirittura incompatibili, almeno difficili a realizzare
congiuntamente: investimenti elevati, stabilità dei prezzi, equilibrio della bilancia dei pagamenti.
Lo sviluppo veloce della produzione, unito a un flusso cospicuo di emigrazione verso Svizzera,
Francia e Germania, contribuì a risolvere, almeno temporaneamente, il problema della
disoccupazione. Sdrammatizzato il problema del mercato del lavoro, il capitalismo italiano poté
dedicarsi all’investimento intensivo nel settore industriale, sviluppare le esportazioni, inserire
l’economia nazionale nel contesto europeo. Per le medesime ragioni, fu possibile in questi anni
avviare nel Mezzogiorno una politica di industrializzazione accelerata.
c)
Lotte sindacali (1963-73) In questi anni, gli eventi esterni risultano meno favorevoli rispetto al
passato. Il flusso migratorio verso i paesi europei comincia a declinare. Al termine degli anni
sessanta le emigrazioni nette finiscono quasi con l’annullarsi, il che ripropone in termini aggravati
il problema della disoccupazione. Al tempo stesso, le lotte sindacali, iniziatesi nell’industria del
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Nord fin dal 1959, riprendono a somiglianza di quanto accade in altri paesi (segnatamente in
Francia e in Germania), e toccano il culmine nell’«autunno caldo» del 1969. Una prima manovra
di deflazione, attuata nel 1963, riduce temporaneamente la combattività sindacale e consente
alle imprese una prima ristrutturazione, consistente soprattutto nella
riorganizzazione
interna del processo produttivo. Dopo la ripresa delle lotte sindacali nel 1969, l’industria avvia una
seconda e più vasta manovra di ristrutturazione, basata sul
decentramento
produttivo e sullo
sviluppo della piccola e media impresa. Questo, insieme all’espansione progressiva del settore
dei servizi, consente di riassorbire, almeno in parte, la disoccupazione.
d) Le crisi del petrolio (1973-79) Nel corso degli anni settanta, la scena internazionale subisce
cambiamenti considerevoli, che pongono all’economia italiana problemi nuovi e di non facile
soluzione. Con il 1971 ha inizio un rapido aumento dei prezzi internazionali delle materie prime.
Tale aumento, in seguito al conflitto scoppiato fra lo Stato d’Israele e i paesi arabi confinanti (la
cosiddetta guerra del Kippur), sbocca nella decisione dell’Opec (Organization of the Petroleum
Exporting Countries, Organizzazione dei paesi esportatori di petrolio) di quadruplicare il prezzo
del petrolio greggio. Nel 1979, un nuovo aumento del prezzo del petrolio determinerà una
seconda «crisi petrolifera». Le
redistribuzione di reddito a favore dei paesi produttori di petrolio modifica la struttura dei flussi
commerciali. Al tempo stesso, emergono nel mercato mondiale i Nuovi paesi industrializzati
(Hong Kong, Singapore, Corea, Taiwan e altri ancora) che, nel settore delle produzioni
tradizionali, all’ombra dell’economia giapponese, muovono una concorrenza irresistibile ai paesi
di più vecchia industrializzazione.
L’industria della Germania Federale, sostenuta da tecnologie d’avanguardia e, sotto il profilo
finanziario, in posizione tale da dominare i settori industriali dei paesi emergenti, riesce a tenere
testa a questi eventi assai meglio delle economie degli altri paesi europei. La Germania Federale
si afferma come economia guida in Europa e il marco come valuta centrale tra le valute europee.
Si formano così
tre grandi aree valutarie, rispettivamente del dollaro, del marco e dello yen. L’industria italiana è
adesso costretta a lottare su due fronti, da un lato contro i paesi industriali avanzati, che muovono
concorrenza servendosi di tecnologie d’avanguardia, dall’altro contro i paesi di nuova
industrializzazione, che si battono con le armi del prezzo.
Sconvolgimenti paralleli si verificano nel settore monetario. L’emergere del marco e dello yen
come nuove valute forti provoca la crisi del dollaro, che nel 1971 viene dichiarato inconvertibile.
Questa decisione segna la fine del sistema dei pagamenti internazionali così come era emerso
nel 1944 dagli accordi di Bretton Woods. Nel 1973, i paesi europei abbandonano il sistema dei
cambi fissi. Anche l’Italia si affida a un
sistema di cambi flessibili che resta in vigore fino al 1979, anno in cui l’Italia aderisce al nuovo
Sistema monetario europeo, basato su cambi stabili tra valute europee e cambi flessibili rispetto
al dollaro e allo yen.
e) L’integrazione monetaria europea. Gli ultimi vent’anni sono dominati dall’obiettivo di estendere
l’integrazione europea dal campo commerciale al settore finanziario e monetario. In questa
prospettiva, i paesi europei si pongono l’obiettivo di realizzare cambi stabili nell’ambito
dell’Unione europea. L’Italia aderisce al Sistema monetario europeo nel 1979, ma nel 1992,
sotto l’urto di ondate speculative, è costretta a uscirne per quattro anni. Al suo rientro nel
Sistema, nel novembre 1996, l’obiettivo finale dell’Unione europea, in seguito all’approvazione del
Trattato di Maastricht (1992), è diventato assai più ambizioso: trasformare l’Unione europea in
una unione monetaria, dotata di moneta unica e di una sola Banca centrale europea. I vincoli
imposti da questo obiettivo risultano assai più stringenti di quelli che vent’anni prima erano
scaturiti dal Sistema monetario europeo. Nello sforzo di prepararsi all’unione monetaria, tutti i
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paesi europei mettono in atto una politica rigorosa di risanamento del bilancio pubblico e di
ristrutturazione industriale. L’Italia, oberata da un debito pubblico assai più elevato della media
europea, deve percorrere questa strada a ritmo accelerato. Ne deriva una veloce caduta
dell’occupazione, soprattutto nella grande industria, che, congiunta alla dispersione della classe
lavoratrice in una miriade di opifici minori e all’espansione incontrollata del lavoro sommerso,
riduce progressivamente la forza contrattuale dei sindacati, sia sul piano salariale sia su quello
normativo. Sul terreno finanziario (stabilità dei prezzi, riduzione del disavanzo pubblico, riduzione
dei tassi di interesse), la politica di rigore ottiene rapidi successi. Se ne scontano le conseguenze
sul terreno reale: la disoccupazione cresce, crescono le diseguaglianze nella distribuzione
personale dei redditi, crescono nuovamente le distanze fra il Centro-Nord e il Mezzogiorno.
(1) Le opere generali riguardanti la st